L’incidente nel canale di Suez ha mostrato come l’economia mondiale sia appesa a un filo: ce ne parla Paolo Vasone.
Quando la nave portacontainer Ever Given si è incagliata circa a metà del canale di Suez, a molti dirigenti del mondo dell’automotive si è fermato il cuore.
Negli ultimi mesi, infatti, complice il costo del container per portare la merce dall’Oriente all’Occidente, il trasporto delle merci ha subito aumenti che in alcuni casi hanno superato il 500%, ma soprattutto la logistica mondiale era già in affanno. La pandemia, infatti, ha creato conseguenze inaspettate nel mondo della componentistica di primo impianto come nella ricambistica.
Lo stop di interi siti di produzione auto lo scorso anno ha comportato di conseguenza il fermo di molte fabbriche di componentisti che lavoravano anche per l’aftermarket e la ripresa della produzione automobilistica mondiale ha assorbito tutta l’offerta di componenti, con il risultato che quasi tutti i componenti aftermarket hanno avuto problemi di approvvigionamento.
Non solo.
Il costo dell’import dalla Cina, come dicevamo, è aumentato spaventosamente, ma non basta: oggi spedire un container è diventata un’impresa, perché molte compagnie già rifiutavano di spedire i carichi più pesanti per limitare i consumi delle navi portacontainer.
Così, una nave che si incaglia, bloccando tutte quelle provenienti dall’Oriente in quello che potrebbe essere considerato il primo ingorgo navale della storia, come se Suez fosse una tangenziale qualunque, ha fatto sì che in molti abbiano temuto il peggio.
Per fortuna l’emergenza si è risolta in poco tempo, ma è evidente che il segnale è arrivato a molti in maniera forte e chiara: forse la catena distributiva delle merci è troppo esasperata e bisogna riflettere su un modello più resistente a fenomeni incontrollabili come il Covid-19 o una nave che si incaglia.
Per capire però cosa questo incidente abbia davvero comportato per la filiera dell’autoriparazione e quali siano le mosse che andrebbero messe in campo per contrastare questi fenomeni abbiamo intervistato Paolo Vasone, coordinatore ANFIA-Aftermarket.
Come è possibile che una nave incagliata blocchi il commercio mondiale?
Sicuramente questo incidente di percorso ha fatto capire quanto tutto il sistema economico mondiale sia fragile. Esattamente come con il Covid, non ci immaginavamo neanche lontanamente che il trasporto mondiale potesse tracollare per un incidente così locale.
Il problema originale è che il sistema economico è fragile e tutta la produzione mondiale vive costantemente sul filo di un rasoio chiamato “just-in-time”. Basti pensare che ogni prodotto finito, specie nel mondo automotive, ha quattro o cinque livelli di fornitura per essere completato: è sufficiente che se ne blocchi uno e si ferma tutto.
Nell’automotive questa fragilità l’abbiamo anche “provocata”, perché in Europa è stato quasi del tutto smantellato un sistema industriale (che nonostante tutto è ancora robusto benché ammaccato) che era di primaria importanza mondiale. Per mille motivi, molti dei quali legati a una mancanza di visione politica e al risparmio del singolo imprenditore, la centralità europea dell’automotive si è spostata prima verso l’Est Europa e poi verso i paesi orientali. Ci siamo lasciati sfuggire una delle nostre eccellenze, ma non è tardi per recuperare.
Facile a dirsi, ma difficile a farsi: sembra la classica corsa a chiudere i cancelli quando i buoi sono ormai scappati; come è possibile recuperare competitività in un settore ormai delocalizzato?
È una lezione che dobbiamo imparare: quando abbiamo un know-how dobbiamo evitare che scappi, dobbiamo essere noi a trainare. L’incidente del canale di Suez ci ha messo a nudo rispetto all’import, ma non tutto è perduto.
L’Europa, l'Italia hanno dei punti di forza che vanno fatti conoscere e valorizzati con orgoglio.
Parlo ad esempio dei poli automotive che sono fiori all’occhiello, che dovremmo portare con orgoglio. Penso, in particolare, al nascente polo di ricerca automotive europeo di Torino; alla nuova factory di Mirafiori in collaborazione con il Politecnico di Torino e gli enti piemontesi; il polo produttivo in Abruzzo, che ha un progetto ambiziosissimo dal 2021 al 2027 di rilancio assoluto; così come tutto il comprensorio della Motorvalley in Emilia e, aggiungerei, anche la nascita della gigafactory a Ivrea per la produzione delle batterie per autotrazione del futuro.
Abbiamo grandi progettualità e grandi opportunità, si tratta di valorizzarle in maniera corretta, per riportare il nostro continente, e in particolare il nostro paese, al centro dello sviluppo futuro.
Quelli citati sono tutti progetti ambiziosi, ma la politica sembra essere sempre meno interessata all’auto e all’industria che la sostiene, come si potrà cambiare rotta?
Questo incidente ci deve preoccupare come nazione e deve portare a un mea culpa generale a tutti i livelli per quello che negli anni ci siamo lasciati sfuggire, soprattutto verso l’Oriente. Anche la politica deve capire che è necessario avere la speranza e la volontà di rilanciare la nostra economia, non fosse altro perché le opportunità sono enormi.
In questo senso, da parte nostra, ANFIA sta facendo un grande lavoro a livello governativo per portare le istanze dei componentisti tra le priorità dell’esecutivo.
Non solo, abbiamo gruppi di pressione che operano a tutti i livelli, specialmente in riferimento a quello che è probabilmente il ministero cruciale per il futuro, ossia il MISE (Ministero dello Sviluppo Economico n.d.r.).
In questa attività non siamo soli: il Covid-19 ha portato una compattezza tra gli attori che non ha precedenti, ora si tratta di sfruttarla al meglio, non tra 10 anni, ma adesso.
E dico questo perché fino ad oggi ci siamo appoggiati all’Oriente con i limiti che abbiamo visto, ma il futuro sarà differente. La Cina crescerà notevolmente in ambito automotive e sta già ora guidando la rivoluzione elettrica. Nel giro di una decina d’anni il mercato interno sarà talmente importante che probabilmente non ci sarà più spazio per l’export verso l'Europa, semplicemente perché non basterà la produzione. Dobbiamo pensare oggi a come sia possibile tornare ad avere dei componentisti a km 0, dove per km 0 intendo almeno europei.
In tutto questo, la filiera aftermarket soffre non poco, cosa sta succedendo?
La globalizzazione ha portato un disastro, perché basta un granello di sabbia in un ingranaggio poco oliato perché il sistema salti. Oggi questo modello non è più gestibile. È necessario tornare a una centralità europea che a sua volta veda l'Italia in una posizione baricentrica.
Sulla nostra filiera dico quello che ho sempre detto. Qualche anno fa molti gridarono allo scandalo quando affermai che sul mercato rimarrà solo chi produce e chi installa. Oggi più che mai ritengo che quella affermazione fosse corretta: queste due figure rimarranno sempre, mentre tutto quello che sta nel mezzo è destinato a cambiare.
La pandemia ha accelerato questo processo, perché la marginalità si è compressa per tutti, dai componentisti ai distributori e oggi, per la prima volta, anche per gli installatori (a causa della diminuita capacità di spesa delle famiglie).
Anche nel nostro settore, bisogna tornare a pensare il business in chiave economico-commerciale anziché puramente finanziaria. Chi ha la cultura della conoscenza e della vendita del ricambio in quanto componente manterrà un vantaggio competitivo importante, fatto di relazioni, servizi e vicinanza al mercato.
Se invece si opera come un soggetto finanziario il ricambio diventa una “commodity” e a fare la differenza rimane solo il prezzo, non la funzione, perché magari si hanno guadagni trasversali. Su questa via si apre la strada a operatori come Amazon e altri, perché non c’è alcun valore aggiunto.
Molto spesso il destino delle cose nasce da un piccolo passo falso, qualcuno che non interpreta al meglio il proprio ruolo. Se non si dà valore aggiunto al prodotto, la differenza sta solo nel prezzo e anche chi è grande oggi deve tenere conto che esiste sempre qualcuno più grande e solido finanziariamente. In questo tipo di gara non importa neanche essere del settore: se l’unico parametro sono i soldi e non le competenze, il business finisce per forza in mano a qualche multinazionale.
Personalmente credo ancora che il ricambista evoluto, o meglio ancora il “distributore di prossimità” (neologismo in ambito aftermaket), sia il soggetto migliore per vendere ricambi e fornire servizi, perché ha conoscenza del prodotto ed è in grado di gestire lo sviluppo delle reti di installazione, che sarà la sfida del futuro.
Eppure, proprio il mercato sembra mettere in discussione le reti indipendenti, la tecnologia sembra destinata a tagliare fuori chi non è autorizzato…
Direi assolutamente di no. Disegnare il futuro è un’attività complicata e sicuramente si rischia di prendere grandi cantonate, ma quello che stiamo notando è un’accelerazione importante verso l’elettrico, con una spinta che parte dai governi, ma è cavalcata anche dalle case automobilistiche, che vedono in questo cambio di tecnologia una grande opportunità di business.
Nel mondo dell’autoriparazione, al momento, la sfida viene vista in ottica negativa, perché probabilmente diminuiranno i ricambi, non essendoci più un motore termico, ma, a mio avviso, ci sono grandi opportunità anche per la nostra filiera.
Ci sarà bisogno di nuove competenze e attori centrali come i distributori di prossimità, che saranno il crocevia di nuovi servizi a valore aggiunto. Diciamo che questa rivoluzione porterà di nuovo al centro la competenza.
Il fatto è che, indipendentemente da come la si pensi, la transizione elettrica è già iniziata e possiamo stare a discutere se l’evoluzione sarà più veloce o più lenta, ma sicuramente avverrà.
Bisogna iniziare a pensare ora come immaginiamo una rete di assistenza indipendente tra 15 anni, altrimenti, poi, sarà troppo tardi.
Noi, in Italia, abbiamo la manifattura nel DNA e dobbiamo fare in modo che le aziende vengano qui a investire, perché la nostra cultura dell’automotive è tra le migliori al mondo. La pandemia ha mostrato come tutti i paesi europei siano interconnessi e, in questa filiera, l’Italia, non è seconda a nessuno.
In questo momento ci tocca resistere alla situazione, ma è necessario che il mercato, anche con l’aiuto delle associazioni, cambi approccio, non c’è più tempo per l’improvvisazione.
Il neo-ricambista o distributore di prossimità è un lavoro serio, è necessario che il testimone passi a nuove generazioni e che ci siano maggiori investimenti in formazione. Su questo, noi come ANFIA, ma anche altre associazioni, ad esempio A.D.I.R.A., possiamo fare molto.
Eppure nonostante queste considerazioni il settore automotive, per lo meno per la fornitura dei ricambi, è sempre più globale, con gruppi di acquisto ormai sovracontinentali. La globalizzazione sembra ormai un fenomeno inarrestabile, come si può tornare alla filiera locale in un mondo globale?
Ritengo che ormai la globalizzazione abbia rivelato i suoi limiti e l’ultimo anno ci ha mostrato chiaramente i problemi di un mondo globale. Credo invece in quello che gli esperti di economia chiamano “glocalizzazione”. In quest’ottica vanno benissimo i gruppi di acquisto internazionali, purché riescano a declinare progetti mondiali sulle caratteristiche dei paesi in cui operano: progetti globali con caratteristiche locali.
Basta guardare altri mercati per capirlo: quando un gigante come Mc Donald’s si è espanso nel mondo, in ogni paese in cui è arrivato, superata la curiosità iniziale, non è riuscito a sfondare fino a quando non ha saputo adattarsi. Mc Donald’s ha saputo cogliere le caratteristiche locali per personalizzare un prodotto globale e renderlo più friendly; lo stesso deve accadere per il business dell’autoriparazione.
Dobbiamo ricordare che ogni paese ha le sue caratteristiche storiche e culturali, che non consentono di fare esperimenti impiantando modelli che magari hanno funzionato altrove. Siamo pieni di esempi in questo senso nel nostro settore e quasi tutti sono stati un fallimento.
Il nostro settore è molto intelligente, abbiamo una cultura eccellente, che parte da chi produce e arriva a chi installa i pezzi, comprendendo una delle migliori filiere logistiche.
È necessario far emergere queste eccellenze, senza adagiarsi su luoghi comuni o adeguarsi alla mediocrità, perché sarebbe un insulto al know-how di un comparto che ha personalità in tutti gli ambiti: distributivo, commerciale e tecnico.
Se ci abbassiamo alla mediocrità, allora non potremo più lamentarci, bisognerà innovare e reinventarsi.
La logica del just-in-time e del servizio sempre più veloce ha visto tutta la filiera abbassare gli stock dei magazzini per puntare su servizi on demand. Secondo la distribuzione sono i componentisti a dover ovviare alle richieste con magazzini centrali, secondo i componentisti è un ruolo che spetta alla distribuzione: come se ne esce?
Credo veramente che l’aspetto delle operation della logistica e pianificazione degli acquisti sarà la carta vincente per il futuro. La supply chain dovrà essere vista non solo in termini di ottimizzazione di costi, ma come servizio essenziale: occorre fare in modo che la merce ci sia sempre dove e quando serve. Bisognerà probabilmente ripensare tutto e iniziare da subito a investire in nuovi modelli, perché, da qui in avanti, con quello che stiamo vivendo, il magazzino sarà lo spartiacque tra restare o uscire dal business.
In Europa, così come in ogni azienda, abbiamo superato il punto di non ritorno: oggi basta un minimo scossone e si finisce fuori, il caso della Ever Given è esemplare...
Ma se ci fermiamo a riflettere su come funziona la distribuzione ricambi oggi, con le sue esagerazioni di servizio, con una politica prezzi sempre e solo al ribasso, ci rendiamo conto che non è così differente da quello che è successo in altri settori. Siamo noi, come consumatori, che vogliamo un pacco consegnato in giornata e un’auto riparata in due minuti. Questa esasperazione del “tempo istantaneo” è la causa di molti dei problemi che stiamo vivendo oggi.
Probabilmente sarà necessario ripensare tutto il modello economico, portando al centro il concetto di sostenibilità, non solo ecologica, ma anche delle operation, della logistica e del servizio.
Nell’automotive questa fragilità l’abbiamo anche “provocata”, perché in Europa è stato quasi del tutto smantellato un sistema industriale (che nonostante tutto è ancora robusto benché ammaccato) che era di primaria importanza mondiale. Per mille motivi, molti dei quali legati a una mancanza di visione politica e al risparmio del singolo imprenditore, la centralità europea dell’automotive si è spostata prima verso l’Est Europa e poi verso i paesi orientali. Ci siamo lasciati sfuggire una delle nostre eccellenze, ma non è tardi per recuperare.
Facile a dirsi, ma difficile a farsi: sembra la classica corsa a chiudere i cancelli quando i buoi sono ormai scappati; come è possibile recuperare competitività in un settore ormai delocalizzato?
È una lezione che dobbiamo imparare: quando abbiamo un know-how dobbiamo evitare che scappi, dobbiamo essere noi a trainare. L’incidente del canale di Suez ci ha messo a nudo rispetto all’import, ma non tutto è perduto.
L’Europa, l'Italia hanno dei punti di forza che vanno fatti conoscere e valorizzati con orgoglio.
Parlo ad esempio dei poli automotive che sono fiori all’occhiello, che dovremmo portare con orgoglio. Penso, in particolare, al nascente polo di ricerca automotive europeo di Torino; alla nuova factory di Mirafiori in collaborazione con il Politecnico di Torino e gli enti piemontesi; il polo produttivo in Abruzzo, che ha un progetto ambiziosissimo dal 2021 al 2027 di rilancio assoluto; così come tutto il comprensorio della Motorvalley in Emilia e, aggiungerei, anche la nascita della gigafactory a Ivrea per la produzione delle batterie per autotrazione del futuro.
Abbiamo grandi progettualità e grandi opportunità, si tratta di valorizzarle in maniera corretta, per riportare il nostro continente, e in particolare il nostro paese, al centro dello sviluppo futuro.
Quelli citati sono tutti progetti ambiziosi, ma la politica sembra essere sempre meno interessata all’auto e all’industria che la sostiene, come si potrà cambiare rotta?
Questo incidente ci deve preoccupare come nazione e deve portare a un mea culpa generale a tutti i livelli per quello che negli anni ci siamo lasciati sfuggire, soprattutto verso l’Oriente. Anche la politica deve capire che è necessario avere la speranza e la volontà di rilanciare la nostra economia, non fosse altro perché le opportunità sono enormi.
In questo senso, da parte nostra, ANFIA sta facendo un grande lavoro a livello governativo per portare le istanze dei componentisti tra le priorità dell’esecutivo.
Non solo, abbiamo gruppi di pressione che operano a tutti i livelli, specialmente in riferimento a quello che è probabilmente il ministero cruciale per il futuro, ossia il MISE (Ministero dello Sviluppo Economico n.d.r.).
In questa attività non siamo soli: il Covid-19 ha portato una compattezza tra gli attori che non ha precedenti, ora si tratta di sfruttarla al meglio, non tra 10 anni, ma adesso.
E dico questo perché fino ad oggi ci siamo appoggiati all’Oriente con i limiti che abbiamo visto, ma il futuro sarà differente. La Cina crescerà notevolmente in ambito automotive e sta già ora guidando la rivoluzione elettrica. Nel giro di una decina d’anni il mercato interno sarà talmente importante che probabilmente non ci sarà più spazio per l’export verso l'Europa, semplicemente perché non basterà la produzione. Dobbiamo pensare oggi a come sia possibile tornare ad avere dei componentisti a km 0, dove per km 0 intendo almeno europei.
In tutto questo, la filiera aftermarket soffre non poco, cosa sta succedendo?
La globalizzazione ha portato un disastro, perché basta un granello di sabbia in un ingranaggio poco oliato perché il sistema salti. Oggi questo modello non è più gestibile. È necessario tornare a una centralità europea che a sua volta veda l'Italia in una posizione baricentrica.
Sulla nostra filiera dico quello che ho sempre detto. Qualche anno fa molti gridarono allo scandalo quando affermai che sul mercato rimarrà solo chi produce e chi installa. Oggi più che mai ritengo che quella affermazione fosse corretta: queste due figure rimarranno sempre, mentre tutto quello che sta nel mezzo è destinato a cambiare.
La pandemia ha accelerato questo processo, perché la marginalità si è compressa per tutti, dai componentisti ai distributori e oggi, per la prima volta, anche per gli installatori (a causa della diminuita capacità di spesa delle famiglie).
Anche nel nostro settore, bisogna tornare a pensare il business in chiave economico-commerciale anziché puramente finanziaria. Chi ha la cultura della conoscenza e della vendita del ricambio in quanto componente manterrà un vantaggio competitivo importante, fatto di relazioni, servizi e vicinanza al mercato.
Se invece si opera come un soggetto finanziario il ricambio diventa una “commodity” e a fare la differenza rimane solo il prezzo, non la funzione, perché magari si hanno guadagni trasversali. Su questa via si apre la strada a operatori come Amazon e altri, perché non c’è alcun valore aggiunto.
Molto spesso il destino delle cose nasce da un piccolo passo falso, qualcuno che non interpreta al meglio il proprio ruolo. Se non si dà valore aggiunto al prodotto, la differenza sta solo nel prezzo e anche chi è grande oggi deve tenere conto che esiste sempre qualcuno più grande e solido finanziariamente. In questo tipo di gara non importa neanche essere del settore: se l’unico parametro sono i soldi e non le competenze, il business finisce per forza in mano a qualche multinazionale.
Personalmente credo ancora che il ricambista evoluto, o meglio ancora il “distributore di prossimità” (neologismo in ambito aftermaket), sia il soggetto migliore per vendere ricambi e fornire servizi, perché ha conoscenza del prodotto ed è in grado di gestire lo sviluppo delle reti di installazione, che sarà la sfida del futuro.
Eppure, proprio il mercato sembra mettere in discussione le reti indipendenti, la tecnologia sembra destinata a tagliare fuori chi non è autorizzato…
Direi assolutamente di no. Disegnare il futuro è un’attività complicata e sicuramente si rischia di prendere grandi cantonate, ma quello che stiamo notando è un’accelerazione importante verso l’elettrico, con una spinta che parte dai governi, ma è cavalcata anche dalle case automobilistiche, che vedono in questo cambio di tecnologia una grande opportunità di business.
Nel mondo dell’autoriparazione, al momento, la sfida viene vista in ottica negativa, perché probabilmente diminuiranno i ricambi, non essendoci più un motore termico, ma, a mio avviso, ci sono grandi opportunità anche per la nostra filiera.
Ci sarà bisogno di nuove competenze e attori centrali come i distributori di prossimità, che saranno il crocevia di nuovi servizi a valore aggiunto. Diciamo che questa rivoluzione porterà di nuovo al centro la competenza.
Il fatto è che, indipendentemente da come la si pensi, la transizione elettrica è già iniziata e possiamo stare a discutere se l’evoluzione sarà più veloce o più lenta, ma sicuramente avverrà.
Bisogna iniziare a pensare ora come immaginiamo una rete di assistenza indipendente tra 15 anni, altrimenti, poi, sarà troppo tardi.
Noi, in Italia, abbiamo la manifattura nel DNA e dobbiamo fare in modo che le aziende vengano qui a investire, perché la nostra cultura dell’automotive è tra le migliori al mondo. La pandemia ha mostrato come tutti i paesi europei siano interconnessi e, in questa filiera, l’Italia, non è seconda a nessuno.
In questo momento ci tocca resistere alla situazione, ma è necessario che il mercato, anche con l’aiuto delle associazioni, cambi approccio, non c’è più tempo per l’improvvisazione.
Il neo-ricambista o distributore di prossimità è un lavoro serio, è necessario che il testimone passi a nuove generazioni e che ci siano maggiori investimenti in formazione. Su questo, noi come ANFIA, ma anche altre associazioni, ad esempio A.D.I.R.A., possiamo fare molto.
Eppure nonostante queste considerazioni il settore automotive, per lo meno per la fornitura dei ricambi, è sempre più globale, con gruppi di acquisto ormai sovracontinentali. La globalizzazione sembra ormai un fenomeno inarrestabile, come si può tornare alla filiera locale in un mondo globale?
Ritengo che ormai la globalizzazione abbia rivelato i suoi limiti e l’ultimo anno ci ha mostrato chiaramente i problemi di un mondo globale. Credo invece in quello che gli esperti di economia chiamano “glocalizzazione”. In quest’ottica vanno benissimo i gruppi di acquisto internazionali, purché riescano a declinare progetti mondiali sulle caratteristiche dei paesi in cui operano: progetti globali con caratteristiche locali.
Basta guardare altri mercati per capirlo: quando un gigante come Mc Donald’s si è espanso nel mondo, in ogni paese in cui è arrivato, superata la curiosità iniziale, non è riuscito a sfondare fino a quando non ha saputo adattarsi. Mc Donald’s ha saputo cogliere le caratteristiche locali per personalizzare un prodotto globale e renderlo più friendly; lo stesso deve accadere per il business dell’autoriparazione.
Dobbiamo ricordare che ogni paese ha le sue caratteristiche storiche e culturali, che non consentono di fare esperimenti impiantando modelli che magari hanno funzionato altrove. Siamo pieni di esempi in questo senso nel nostro settore e quasi tutti sono stati un fallimento.
Il nostro settore è molto intelligente, abbiamo una cultura eccellente, che parte da chi produce e arriva a chi installa i pezzi, comprendendo una delle migliori filiere logistiche.
È necessario far emergere queste eccellenze, senza adagiarsi su luoghi comuni o adeguarsi alla mediocrità, perché sarebbe un insulto al know-how di un comparto che ha personalità in tutti gli ambiti: distributivo, commerciale e tecnico.
Se ci abbassiamo alla mediocrità, allora non potremo più lamentarci, bisognerà innovare e reinventarsi.
La logica del just-in-time e del servizio sempre più veloce ha visto tutta la filiera abbassare gli stock dei magazzini per puntare su servizi on demand. Secondo la distribuzione sono i componentisti a dover ovviare alle richieste con magazzini centrali, secondo i componentisti è un ruolo che spetta alla distribuzione: come se ne esce?
Credo veramente che l’aspetto delle operation della logistica e pianificazione degli acquisti sarà la carta vincente per il futuro. La supply chain dovrà essere vista non solo in termini di ottimizzazione di costi, ma come servizio essenziale: occorre fare in modo che la merce ci sia sempre dove e quando serve. Bisognerà probabilmente ripensare tutto e iniziare da subito a investire in nuovi modelli, perché, da qui in avanti, con quello che stiamo vivendo, il magazzino sarà lo spartiacque tra restare o uscire dal business.
In Europa, così come in ogni azienda, abbiamo superato il punto di non ritorno: oggi basta un minimo scossone e si finisce fuori, il caso della Ever Given è esemplare...
Ma se ci fermiamo a riflettere su come funziona la distribuzione ricambi oggi, con le sue esagerazioni di servizio, con una politica prezzi sempre e solo al ribasso, ci rendiamo conto che non è così differente da quello che è successo in altri settori. Siamo noi, come consumatori, che vogliamo un pacco consegnato in giornata e un’auto riparata in due minuti. Questa esasperazione del “tempo istantaneo” è la causa di molti dei problemi che stiamo vivendo oggi.
Probabilmente sarà necessario ripensare tutto il modello economico, portando al centro il concetto di sostenibilità, non solo ecologica, ma anche delle operation, della logistica e del servizio.
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