È il trend degli ultimi anni: il private label. Tra differenze e strategie capiamo il perché di questo fenomeno.
Nel mondo della distribuzione i prodotti a marchio sono una consuetudine da anni.
Secondo le varie ricostruzioni, il primo “private label” noto della storia risale ai primi del Novecento, quando una società che prometteva il caffè fresco prima delle 8 di mattina (Atlantic & Pacific Tea Company nota come A&P) iniziò a promuovere i propri marchi al posto delle forniture esterne. Marchi che poi diventarono famosi e oggi sono ancora conosciuti negli Stati Uniti (Craftsman, Kenmore, eccetera).
Eppure la vera rivoluzione arrivò quando la grande distribuzione americana, i supermercati per intenderci, iniziarono a pensare di proporre i prodotti a proprio marchio. I primi furono Safeway e Wallmart, ma presto il fenomeno dilagò in tutto il mondo e oggi ogni catena ha uno o più marchi con cui commercializza linee di pasta, condimenti e qualunque prodotto in concorrenza con i brand blasonati che distribuisce.
L’evoluzione successiva fu la nascita di società che hanno fatto del private label l’unica marca distribuita: oggi realtà come Lidl, Aldi e tutto il mondo discount vive solo di private label.
Perché il private costa meno?
Ma perché le insegne hanno optato per un proprio brand? La motivazione alla base è stata inizialmente quella di puntare sul prezzo.Quasi tutte le realtà della distribuzione hanno sviluppato un proprio brand per poter garantire ai clienti prodotti di qualità equivalente a un prezzo concorrenziale rispetto ai brand più noti.
Come questo sia possibile è presto detto: se un’insegna, ad esempio Esselunga, decide di acquistare la pasta per tutti i suoi punti vendita direttamente da un produttore e farla inscatolare con il proprio marchio, avrà sicuramente un forte potere contrattuale con il produttore per il prezzo di acquisto, senza però dover pagare il marketing per far conoscere il suo brand. Alla fine, i prodotti così realizzati vivranno di riflesso della notorietà del brand della catena e il prezzo finale sarà più basso.
C’è anche da considerare che più grande è la realtà, maggiore sarà la forza che avrà verso i propri fornitori, potendo quindi richiedere alti standard qualitativi a un prezzo più che concorrenziale. Ovviamente il produttore si troverà con grandi volumi di produzione e fatturati importanti, anche se comunque con margini molto bassi.
Dall’alimentare al consumo
Il fenomeno è tanto attraente per le insegne che in breve tempo sono nate aziende che hanno introdotto i propri private label in quasi ogni tipo di commercio: casi come Decathlon nello sport o Ikea nell’arredo rappresentano fenomeni mondiali di aziende che hanno sposato la via del private label con distribuzione esclusiva e oramai anche i giganti del web propongono proprie linee brandizzate in concorrenza con i marchi più noti.In questo senso Amazon rappresenta sicuramente l’ultimo caso di scuola di questo fenomeno: con la proposizione dei prodotti marchiati Amazon Basic, infatti, ha creato una propria linea di prodotti a basso costo in quasi tutti i settori merceologici in cui opera. Dall’elettronica agli articoli per la casa fino all’abbigliamento, oramai quasi ogni settore vede presente il marchio Amazon Basic cui si sono affiancati nel tempo altri brand come Amazon Essential, Mama Bear, Presto, Basic Care eccetera per un totale di oltre 100 brand.
Il fenomeno Amazon racconta anche la storia del cambiamento dei private label.
Nati come soluzione “a basso costo”, oggi i private label rappresentano spesso una fonte di guadagno aggiuntivo per i distributori. Il motivo per cui le catene di supermercati e i colossi dell’e-commerce introducono un numero sempre maggiore di marchi è dovuto principalmente alla percezione dell’utente: se il marchio del distributore, che sia Amazon, Coop o Esselunga, è visto come “scelta economica”, private label con altri nomi possono essere proposti con un valore maggiore, magari associati a concetti di qualità o ecologia che al marchio di base non vengono spesso riconosciuti.
Il mondo dell’auto e il private label
Il nostro settore non poteva certo essere esente da questo fenomeno e così nel mondo automotive sono proliferati negli anni i private label.Sebbene alcuni produttori siano di fatto dei private label (hanno cioè creato brand su produzioni terziarizzate), il fenomeno che andremo ad analizzare sarà quello legato alla distribuzione, perché il vero private label è identificato con chi controlla il prodotto dalla produzione fino alla distribuzione al cliente finale (nel caso dell’automotive aftermarket quindi fino all’autoriparatore).
In Italia da tempo alcuni grandi distributori nazionali propongono prodotti a proprio marchio, ma oggi sono molti tra distributori, gruppi e ricambisti a proporre linee proprie. Prima di addentrarci nel dettaglio di cosa significhi in Italia il fenomeno dei private label, nel mondo del ricambio però conviene, ancora una volta, fare un salto Oltreoceano per capire come questo fenomeno sia destinato a diventare importante anche in Europa.
Il caso NAPA
Per comprendere appieno come il fenomeno del private label sia riuscito in meno di un secolo a stravolgere una parte consistente del mercato statunitense (e non solo) del ricambio auto, non si può non analizzare il caso di NAPA.Nata nel 1925 come National Automotive Parts Association (da cui l’acronimo) a Detroit, questa realtà assomigliava in origine a quello che oggi chiameremmo comunemente un consorzio di ricambisti. La missione era semplice: servire in maniera coordinata la crescente richiesta di parti ricambio per auto in un mondo in cui rappresentavano ancora una novità. Si trattava all’epoca di negozi indipendenti che commercializzavano marchi noti all’epoca (alcuni dei quali lo sono ancora oggi) garantendo assistenza alle officine.
Con il passare del tempo, una delle aziende che ha contribuito alla nascita dell'associazione, Genuine Parts Company ha iniziato ad acquistare le altre realtà terminando questo processo (durato quasi un secolo) solo nel 2012, anno in cui GPC è diventato l’unico socio di NAPA.
Nonostante questo cambio societario, in realtà altri cambiamenti erano però in atto da tempo. Con il passare degli anni, infatti, i soci di NAPA hanno iniziato a inserire sempre di più nella gamma dei prodotti offerti il marchio NAPA e proporre l’insegna sul mercato come solutore di problemi per l’automobilista.
Così oggi, negli oltre 6.000 negozi che l’insegna ha sul territorio statunitense, si vende solo il marchio NAPA, che è considerato da molti automobilisti al pari, se non a volte superiore, ad alcuni brand di primo equipaggiamento, che comunque rientrano spesso tra i fornitori del gruppo.
Come se non bastasse, oltre a continuare a servire gli autoriparatori indipendenti, NAPA ha anche aperto nel tempo oltre 16.000 centri “Autocare” tra officine meccaniche e carrozzerie che, neanche a dirlo, propongono solo ricambi NAPA.
La notizia che poi ha scosso il mercato europeo è stata proprio l’arrivo di questo brand nel nostro continente, con una campagna di marketing importante, partita dal Regno Unito e che pian piano si estenderà nei paesi dove è presente GPC (quindi non in Italia, almeno per il momento).
L’Italia del private
Ma come si muove il nostro paese in questo settore? Quali sono i trend e gli orientamenti in atto?Iniziamo col dire che l’Italia ha cominciato piuttosto in ritardo ad affrontare questo fenomeno rispetto ad altri paesi.
Per poter offrire prodotti a marchio proprio, infatti, è necessario avere sia un potere contrattuale con i fornitori sia una capacità di vendita sul mercato che possano garantire la sostenibilità dell’impresa: in una sola parola, serve fatturato.
In Italia però, negli ultimi decenni, tale concentrazione è stata perlopiù creata a livello associativo per migliorare la contrattazione con i produttori, e in sostanza era una sola l’azienda ad avere un fatturato importante di cui ci fosse il completo controllo. Il consolidamento di alcune realtà, con aziende che hanno proceduto ad acquisizioni, l’arrivo di operatori esteri, nonché una crescita di consapevolezza anche nel mondo dell’associazionismo hanno permesso al private label di iniziare a crescere anche nel nostro paese.
La spinta che ha portato molti distributori a cominciare a proporre il proprio marchio in affiancamento a quelli più noti è data principalmente a un altro fenomeno che ha caratterizzato l’automotive aftermakret negli ultimi anni: la fine della distribuzione selettiva. Se tutti trattano tutto, la differenza sul mercato si riduce al prezzo e, nei casi migliori, al servizio.
Si è persa cioè l’esclusività di offerta di un distributore che, invece, grazie al proprio brand può ritrovare un’offerta distintiva.
Una questione di numeri
Ma cosa viene proposto sul mercato? In questo la distribuzione italiana non è ancora affatto omogenea.Se alcuni riescono a mettere il proprio marchio su una ampia gamma di prodotti, molti si limitano a poche referenze e altri si concentrano su pochissime linee. In generale i prodotti più semplici da trattare sono batterie e lubrificanti, che quasi tutti coloro che fanno un proprio marchio hanno a catalogo. Poi le cose si complicano un po’.
Il mondo dell’aftermarket, infatti, vive di volumi. Se si parla con un produttore di auto, considerando il portafoglio totale dei ricambi che la casa auto deve proporre, il mercato indipendente rappresenta quello che viene definito “fast moving”, cioè di fatto tratta prodotti che hanno alti volumi di vendita. Più scendono i volumi meno il mercato indipendente ha vantaggio nel proporre un’alternativa al ricambio originale.
Così i produttori di parti di carrozzeria, in cui lo stesso ricambio ha spesso più versioni per il medesimo modello di auto, si concentrano sui prodotti più diffusi; nella meccanica, dove spesso un ricambio ha applicabilità più ampie e trasversali, si hanno gamme molto più ampie.
Se questa regola è vera per i produttori di ricambi, ancor di più il fenomeno si accentua per chi deve acquistare prodotti per poterli offrire con il proprio brand. Per questo batterie e lubrificanti (ma anche spazzole tergicristallo e lampadine), che hanno gamme “corte” con applicabilità alte, sono spesso il primo passo per entrare in questo mondo.
C’è poi una questione di forza finanziaria. Chi oggi vuole fare un proprio marchio privato ha due scelte: o produrre in Europa, dove però i costi di produzione sono alti o delocalizzare e acquistare prodotti in Oriente, dove però servono volumi importanti e capacità di selezione e gestione dei fornitori per garantire una buona qualità a un prezzo competitivo.
In conclusione il private label sta crescendo ancora grazie al vantaggio economico che permette al cliente e al distributore in termini di marginalità, ma il fenomeno sta rapidamente mutando e portando a cambiamenti all’interno della filiera.
In alcuni casi, infatti, si è arrivati a proporre nuovamente marchi in esclusiva, si tratta di fatto di private label creati dal produttore che poi ha “passato il marchio” al distributore.
Secondo molti attori questo fenomeno non porterà tuttavia a un ritorno della distribuzione selettiva, difficile rimettere insieme i pezzi di un vaso che è andato in frantumi, ma ancora una volta a una maggiore concentrazione dei fatturati.
Per ottenere prezzi competitivi con i produttori di primo equipaggiamento e al contempo poter proporre una gamma interessante di un proprio marchio di ricambio serviranno sempre più volumi e fatturati.
Non solo indipendenti
Ma se il mondo della distribuzione ricambi sta pian piano proponendo sempre più i propri brand, in Italia esistono anche altri fenomeni che meritano attenzione.Da anni oramai anche le case auto hanno capito che avere un proprio brand dedicato al ricambio multimarca è un’opportunità e molte hanno un private label: da Motrio di Renault a Eurorepar del gruppo Stellantis.
In questo caso il private label ha la funzione di canalizzare gli acquisti della propria rete di assistenza sui prodotti proposti dalla casa anche nel caso di auto di altri marchi.
Un discorso a parte lo merita poi il gruppo Mobivia, che attraverso i suoi centri Norauto propone la vendita e installazione dei prodotti direttamente all’utente finale. In questo caso il private label è prettamente legato alla convenienza rispetto agli altri marchi distribuiti dal gruppo, ma rappresentano sicuramente un’ottima opportunità per effettuare operazioni promozionali nei confronti dei proprietari attenti ai costi con auto più datate.
Si ringraziano le seguenti aziende per il contributo dato alla realizzazione del presente articolo:
|
Leggi anche
TRADE NEWS | 21/11/2024Nasce Parts Holding Iberia: l’inizio di una nuova era per l’aftermarket spagnolo
APPROFONDIMENTI | 15/11/2024Dalla Germania all’Alto Adige: il servizio all’officina come missione di WM Autoricambi (Wessels+Müller)