Articoli | 01 May 2015 | Autore: Paolo Longhi

Potenza dissipata

Uno slogan di qualche tempo fa recitava: “La potenza è nulla senza il controllo”. Il claim era riferito ai pneumatici. E i freni?

 

Il medesimo motto (per inciso di Annie Leibovitz, dell’Agenzia Young & Rubicam, nel 1994 per Pirelli con Carl Lewis testimonial) potrebbe sposare perfettamente il duro compito dei freni. Nell’analisi prestazionale di una vettura, la maggior parte degli utenti si preoccupa dei dati di potenza e coppia del motore e dell’accelerazione del veicolo, ma in pochi pongono tutta l’attenzione che sarebbe necessaria per analizzare le performance in frenata. Ecco quindi una panoramica tecnica sull’infinito mondo dei freni.

Freni meccanici
Nel settore della tecnica esistono diverse tipologie di sistemi frenanti. Si va dagli impianti che sfruttano i fluidi a quelli che utilizzano le forze generate dai campi elettromagnetici. E poi esistono i classici freni meccanici, quelli che ci interessano e che per espletare la loro funzione sfruttano l’attrito tra superfici per trasformare l’energia cinetica di un veicolo in calore disperso nell’ambiente.
Già questo concetto chiarisce gli elementi fondamentali di un progetto ben fatto: capacità di generare buoni coefficienti di attrito, possibilità di dissipare il calore generato nell’ambiente e sicurezza di poter contare su materiali in grado di resistere ad enormi sollecitazioni termomeccaniche.

Schema essenziale di un circuito frenante
Sebbene possa sembrare scontato, vale la pena riassumere brevemente il layout classico di un impianto frenante per autovettura. E lo facciamo partendo dalle guarnizioni frenanti fino ad arrivare al pedale.
Gli elementi di attrito che agiscono sui dischi o sui tamburi sono mossi da pistoncini, comandati a loro volta da un fluido a bassa comprimibilità, capace di mantenere entro certi limiti di temperatura le sue caratteristiche principali. Il fluido che spinge i pistoncini presenti all’interno del sistema di comando di ogni freno, viene messo in pressione dal pedale azionato dal conducente.
Nella totalità delle vetture destinate a uso turistico, esiste un componente molto importante interposto tra il pedale stesso e il resto del circuito: si chiama servofreno e consente di moltiplicare il valore della forza esercitata dal conducente sul pedale, al fine di trasmettere al fluido operante una pressione nominale molto più elevata.
Detto in così poche parole, e in maniera forse anche un po’ sommaria, un impianto frenante potrebbe sembrare la cosa più semplice di questo mondo. In realtà, le cose stanno molto diversamente. Ecco quindi qualche dettaglio tecnico che dovrebbe far ragionare sia gli utenti, sia gli operatori del settore.

Spingo troppo o spingo poco?
È l’aspetto più immediato tra quelli che l’utente prende in considerazione in occasione del primo contatto con il pedale del freno.
Ci sono auto che hanno impianti particolarmente “responsive”, ossia a piccole corse del pedale e a leggere pressioni corrispondono frenate fin troppo energiche. Questi sono gli impianti in cui l’azione del servofreno risulta eccessiva e in gergo si dice che la pressione sul pedale è poco modulabile.
L’utente crede di avere un’auto che frena bene, ma questo comportamento non ha nulla o quasi a che vedere con le doti del circuito.
Una risposta immediata potrebbe essere un pregio, ma deve essere accompagnata da una buona resistenza al fading, ossia alla capacità di mantenere inalterata la frenata anche con il crescere delle temperature delle pastiglie o dei ceppi (nel caso di freni a tamburo).
La capacità di un progettista nel dimensionare bene l’azione del servofreno è cosa tutt’altro che scontata.

Forze diverse tra retrotreno e avantreno
Quando il veicolo è sottoposto a decelerazione, l’effetto di beccheggio provoca quello che in gergo viene definito un trasferimento di carico.
Si tratta di un alleggerimento del carico gravante sulle ruote posteriori, a tal punto che i progettisti hanno dovuto prevedere un ripartitore di frenata, in modo tale che i freni posteriori agiscano con forze inferiori rispetto a quelli anteriori. Diversamente si assisterebbe a un bloccaggio dell’assale posteriore, con ovvie conseguenze disastrose sulla dinamica di marcia del veicolo e quindi sulla sua sicurezza.

Due è meglio di uno
Qualunque progettista deve sempre prevedere un piano di recovery o, più semplicemente, il classico piano B, per mettere in sicurezza una macchina che smette di funzionare correttamente.
Avviene anche per l’impianto frenante, tanto che la normativa DIN 74000 prevede uno sdoppiamento dell’impianto in modo tale che la frenata, anche se si guastasse l’elemento di comando di una ruota, seppure in misura ridotta, verrebbe comunque garantita.
Generalmente, i circuiti sdoppiati prevedono il comando di una ruota anteriore e di quella posteriore diagonalmente opposta. In questo modo, oltre ad assicurare due ruote che rallentano, viene garantito un minimo di equilibrio della fase di decelerazione.
Se, infatti, si sdoppiasse solo tra asse anteriore e posteriore, in caso di rottura di una tubazione, tanto per citare un esempio, frenerebbe un solo assale e ciò provocherebbe uno sbilanciamento delle condizioni di marcia.

I freni a tamburo
È una delle soluzioni più datate, ma ancora oggi in particolari applicazioni fornisce i suoi vantaggi.
Un tamburo vincolato rigidamente al resto della ruota presenta una superficie circolare interna su cui viene appoggiato con pressioni crescente un altro corpo, la ganascia, che, grazie al materiale di attrito, esercita la propria azione frenante. L’avvicinamento delle ganasce viene garantito dai pistoncini mossi dal fluido in pressione, di cui abbiamo già parlato a inizio articolo. Il ritorno in sede è invece assicurato da un sistema meccanico di molle precaricate che, una volta tolta la pressione sul fluido, richiamano in sede i ceppi (ganasce).

I freni a disco
Questo tipo di layout ha sostituito in modo sempre più generalizzato i tamburi di vecchia generazione.
Il freno a disco si basa su un rotore dotato di un certo spessore e di due pastiglie appoggiate rispettivamente sulle due superfici del disco. Le pastiglie vengono avvicinate alle superfici di lavoro mediante i pistoncini alloggiati nella pinza. Quest’ultima è un terzo corpo che viene montato solidale con la parte strutturale del veicolo. All’aumentare della pressione del pedale, i pistoni spingono le pastiglie contro le superfici del disco. L’attrito esistente provoca il rallentamento del veicolo e la generazione di calore.

Dischi o tamburi?
È una diatriba vecchia come l’automobile, o quasi.
Il modus operandi dei freni a tamburo mette in luce alcune pecche che sono state additate come il “male oscuro” nel mondo dei freni.
Spesso la superficie della guarnizione di attrito, con il passare del tempo, si trova a lavorare in condizioni differenti da quelle di progetto, a causa di un consumo anomalo dei ceppi. Questo avviene perché le guarnizioni frenanti sono soggette al momento torcente imposto dalla ruota e ciò porta a una distribuzione delle forze di superficie non regolare, cosa che invece avviene in maniera molto ridotta su un freno a disco ben fatto.
Bisogna però dire che in alcune applicazioni, in cui questo tipo di efficienza non risulta determinante per il comportamento complessivo dell’impianto, i tamburi vanno benissimo, perché costano molto meno, durano molto di più e garantiscono comunque un’ottima azione frenante.
Pensate, ad esempio, alle city car o alle automobili di segmento B non particolarmente prestazionali. Le tecnologie di oggi, infatti, consentono di realizzare freni a tamburo particolarmente efficienti.
Un altro elemento tecnico che permette di realizzare freni più performanti con la soluzione a disco è legata al raffreddamento.
I dischi possono essere costruiti autoventilanti, baffati e forati. 

Cosa significa?
Semplicemente, il rotore è diviso in due parti affiancate all’interno delle quali vi è un intercapedine dove può essere indirizzata l’aria in arrivo dal frontale del veicolo. Quest’aria, grazie anche alle velocità elevate in gioco, riesce ad asportare calore per convezione.
Per migliorare ulteriormente l’effetto, il disco può essere forato sulla superficie di lavoro. E come se non bastasse, ricavando degli intagli sulla superficie, la baffatura, si riesce a migliorare anche il coefficiente di attrito.
Le ultime realizzazioni, soprattutto quelle più sportive, prevedono addirittura l’utilizzo di materiali estremamente innovativi come la carboceramica, particolarmente resistente agli effetti delle temperature.
Anche i freni a tamburo possono essere costruiti per migliorare la loro efficienza termica, ossia la loro capacità di smaltire il calore. Il tamburo può infatti essere dotato di alette, simili a quelle utilizzate sui vecchi motori raffreddati ad aria di un tempo. Il loro comportamento però non è confrontabile con quello dei moderni impianti a disco.
Bisogna infine segnalare che, per quanto anticipato in precedenza all’interno di questo stesso articolo, il trasferimento di carico in frenata richiede azioni frenanti inferiori sull’asse posteriore, aspetto che rende la soluzione con tamburo perfettamente adatta agli assi posteriori, ancora di più sulle city car.
Questo è il motivo per cui, sulle auto moderne, se ci sono dei freni a tamburo, li dovete cercare sotto i cerchi delle ruote posteriori.

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Tags: freni

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