Il ritorno degli investimenti produttivi in Europa, la globalizzazione e il futuro della componentistica.
L’ultima in ordine di tempo è stata Bosch: nel 2022 investirà oltre 400 milioni di euro nei propri stabilimenti di semiconduttori, ma se fino a ieri questi investimenti erano diretti per lo più in Asia, oggi il piano prevede l’ampliamento, oltre che per la sede di Penang, in Malesia, anche in Germania, a Dresda e Reutlingen.
La crisi dei semiconduttori ha messo in ginocchio l’industria dell’auto, con impianti produttivi che si sono dovuti fermare proprio per la mancanza di questi componenti, ma si tratta della punta dell’iceberg di un problema più ampio.
Se si fanno i conti da inizio pandemia, infatti, è semplice notare come il fenomeno della delocalizzazione degli impianti produttivi - e in generale della globalizzazione - sia stato un boomerang destinato a rimodulare il concetto di sviluppo globale.
Con il blocco pandemico, infatti sono esplosi i tempi e i costi di consegna dall’Oriente, ma ancora più grave si è capito che, se l’Asia si ferma, è il mondo a pagarne le conseguenze.
I limiti della globalizzazione sono stati poi ancor più evidenti quando una nave si è incagliata nel canale di Suez a marzo di quest'anno: migliaia di tonnellate di merce sono rimaste bloccate per giorni e questo indipendentemente dalla pandemia.
La catena distributiva dell’automotive, dalle materie prime fino al prodotto finito, si è dimostrata fragile e questo in un contesto competitivo destinato a cambiare nei prossimi anni.
Secondo lo studio realizzato dalla Commissione EU intitolato “The Future of the EU Automotive Sector”, il nostro continente dovrà affrontare due importanti cambiamenti nella prossima decina di anni: la crescita dell’elettrificazione (ma più in generale il problema delle emissioni) e la connettività dei veicoli.
Entrambi questi macrotrend porteranno indubbiamente dei vantaggi, ma anche dei problemi in quello che è il più importante settore industriale del continente. Un settore che contribuisce per il 7% del fatturato europeo e che, tra produzione di veicoli, componentisti per il primo impianto e aftermarket, contava nell’ultima rilevazione del 2017 oltre 17.000 aziende, di cui circa 2.617 in Italia (che è il secondo paese per numero di aziende attive dopo la Germania che ne ha 2.757).
Chip: il ritorno all’Europa
Un cambiamento che è già iniziato e i cui effetti si sono visti con la pandemia è quello disegnato dalla crisi dei semicontuttori.
Benché la crisi logistica che ha attraversato il mondo abbia impattato su quasi tutta la produzione industriale, dalle materie prime ai semilavorati, l’automotive ha visto tagliarsi la fornitura di un elemento sempre più centrale nella produzione: i chip.
Capire il perché questo sia successo è forse una delle chiavi lettura che permettono di comprendere perché, oggi, l’Europa guardi con attenzione al rilancio della produzione interna: Bosch, come abbiamo già detto, ma anche Intel, che ha stanziato 20 miliardi di euro nel nostro continente (che diventeranno 100 entro il 2030) per aumentare la produzione (una parte delle quali anche in Italia dove sarà potenziato lo stabilimento di Catania).
Come tutte le questioni globali, anche in questo caso le ragioni della crisi sono dovute a più fenomeni interconnessi tra loro, che hanno creato una sorta di “tempesta perfetta” sul mondo dell’automotive.
In primo luogo i paesi asiatici, Cina in testa, dove avviene la maggior parte della produzione di semiconduttori (ma che hanno un ruolo primario nella manifattura in generale), hanno da tempo iniziato a investire sui loro mercati interni: se la Cina cresce economicamente, crescono anche le richieste di beni di consumo e, considerando che stiamo parlando della regione più popolosa del mondo, è chiaro che privilegiare il mercato interno sia prioritario rispetto a fornire clienti esterni.
In secondo luogo la pandemia ha fatto schizzare alle stelle la vendita di prodotti dell’elettronica di consumo, un settore che compete con l’automotive proprio nell’accaparramento dei famosi chip. E con il fermo della produzione di auto dovuto alla pandemia è evidente che i produttori di semiconduttori si rivolgessero al settore che in quel momento trainava il mercato.
Un problema che tuttavia non si fermerà neanche con la ripresa, giacché l’elettronica di consumo ha fatto un ulteriore salto in avanti: non più solo smartphone e computer, oggi i prodotti dotati di chip stanno invadendo le nostre case e con il 5G, quindi la possibilità di interconnettere tutto, dagli elettrodomestici all’abbigliamento, la lotta tra i comparti industriali è destinata ad acuirsi.
Infine, la logistica: perché produrre nel Far East ha fatto sì che le consegne abbiano subito ritardi importanti e ancora oggi la situazione non si è normalizzata.
La componentistica europea
Ma i chip sono solo la punta di un iceberg di sfide che il mondo dell’auto dovrà affrontare. L’evidenza è che la produzione di auto è rallentata e l’Europa è ancora indietro nella progettualità: non solo di auto elettriche e full hybrid, ma anche nella produzione di batterie.
Gli investimenti in questo senso sono importantissimi e la Comunità Europea sta puntando in maniera decisa su questa tecnologia. Al di là della produzione vera e propria (produrre batterie per gigawatt è sicuramente un impegno industriale notevole), il problema però è anche nella disponibilità di materie prime, su cui la Cina si sta muovendo da anni per accaparrarsi l’esclusiva dei principali giacimenti di terre rare, necessarie alla produzione di batterie ad alta efficienza. Per questo, e non solo, in Europa si guarda ancora anche alla CO2 come carburante del futuro.
Basta d’altronde pensare che l’Europa è da sempre leader nella produzione di propulsori, al punto che i moderni Diesel e motori a benzina hanno raggiunto efficienze difficilmente riscontrabili nelle tecnologie degli altri paesi.
In Europa, inoltre, esiste uno dei più fertili ed efficienti sistemi di produzione delle vetture, con sinergie tra attori della produzione che trovano il pari solo in pochi altri posti: solo in Europa, per fare un esempio, esistono fornitori Tier 0.5. I Tier sono quei fornitori di primo impianto che forniscono i componenti per costruire le vetture. Ebbene in generale esistono fornitori di serie 1, che forniscono dei semilavorati alle case automobilistiche e quelli di serie 2 che forniscono i Tier 1.
Ecco, ormai in Europa si parla prevalentemente anche di Tier 0.5, fornitori cioè che compartecipano alla progettazione fornendo sistemi completi e complessi: in particolare sulla parte elettronica sia di gestione del motore, ma anche sulla parte di assistenza alla guida.
Basta infatti vedere la classifica dei fornitori globali di componentistica mondiale: secondo lo studio della Commissione Europea, nel 2020 il primo player per fatturato era Bosch, seguito al secondo da Continental, quindi da ZF Friedrichshafen e Valeo al decimo (tenendo presente che in questa classifica vengono contati tutti i fornitori e quindi ad esempio la francese Michelin è al nono posto).
I principali player europei, quindi, operano sì nella parte di componentistica elettronica, ma sono molto esposti anche con le parti meccaniche: dall’iniezione Diesel alla tiranteria, passando per il frenante e tutti i componenti di “gestione” del motore. Business che andranno in parte convertiti per far fronte all’aumento dell’elettronica di bordo e alla marginalizzazione (molto graduale a dir la verità) delle componenti meccaniche.
La difficile situazione dell’Italia
Per l’Italia la situazione è, se possibile, ancora peggiore. Se il nostro paese è, infatti, il secondo produttore di componentistica europeo dietro alla Germania, bisogna tener presente che la nostra produzione è incentrata su due grandi business: il powertrain (quindi motori e tutto quello che questo comporta) e trasmissioni. Oggi in Italia, secondo le stime di Clepa, solo il 5% del fatturato è generato dai componenti elettronici e questo fa sì che, a meno di importanti cambiamenti nel comparto produttivo italiano, in prospettiva potremo patire un indebolimento del nostro tessuto industriale in un settore strategico come l’automotive.
L'Italia sconta anche un importante invecchiamento del parco circolante (con la fine del 2020 l’età media secondo i dati ACI aveva raggiunto gli 11 anni e 10 mesi, con un aumento medio di 5 mesi se confrontato con il dato del 2019), che se da una parte porterà più lavoro all’assistenza post-vendita, dall’altra è indice di un calo drammatico del tasso di sostituzione dei veicoli, in un mercato saturo come il nostro non è comunque una bella notizia.
Il “problema Italiano” poi è particolarmente acuito anche dalla presenza di auto con almeno 18 anni di anzianità, visto che circa il 20% del totale (un auto su cinque) è ancora Euro 0, 1 o 2.
Ma come è possibile che in Italia circolino ancora tante auto così vecchie viste anche le limitazioni al traffico introdotte negli ultimi anni? Per capire questo fenomeno bisogna considerare la composizione geografica dell’Italia.
Se alcune regioni hanno introdotto limitazioni regionali, così non è in maniera omogenea e in molte zone è possibile circolare anche con vetture Euro zero, almeno fuori dai principali centri cittadini. Se si guarda al nostro paese da un punto di vista demografico, inoltre, non si può non notare come, secondo le statistiche Istat, circa il 60% della popolazione vive in comuni con meno di 50.000 abitanti, dove praticamente è molto raro che esistano limitazioni.
Questo dato, di per sé neutro, rappresenta forse l’unico punto positivo di tutta la filiera automotive: fenomeni come il car sharing, l’auto elettrica, ma anche la guida autonoma sicuramente arriveranno sul mercato. L’Italia avrà forse qualche anno in più per adeguarsi.